di Stefano Vaccara
NEW YORK (STATI UNITI) (ITALPRESS) – Guerra o diplomazia: questo è il dilemma. Per una volta, Donald Trump appare indeciso. L’uomo del “fuoco e furia”, del “solo io so cosa accadrà”, del tweet trasformato in strategia globale, si ritrova prigioniero di un paradosso: quello di aver accusato per anni i presidenti democratici di trascinare l’America in guerre disastrose…e ora rischia di fare lo stesso. Israele ha colpito in profondità, bombardando siti nucleari iraniani tra cui Arak e Natanz. L’Iran ha risposto lanciando missili su città israeliane, colpendo anche l’ospedale Soroka a Beer Sheva. E adesso? Tocca a Trump decidere se far scattare l’intervento militare diretto degli Stati Uniti.
Ma la decisione che sembrava già presa – bombardare l’Iran – si è trasformata in una pausa teatrale, in un “wait and see” che sa di esitazione. Giovedì, con tono misurato, il presidente ha dichiarato: “C’è una sostanziale possibilità che si aprano negoziati con l’Iran, nei prossimi giorni. Ma non è detto che accada”. Due settimane di riflessione, ha detto. Due settimane in cui tutto può cambiare – o esplodere. Fino a pochi giorni fa, Trump parlava apertamente di “finire il lavoro” che Israele ha cominciato. In pubblico evocava la distruzione delle capacità nucleari iraniane, in privato chiedeva al Pentagono liste di obiettivi. Ma qualcosa è cambiato. Chi lo ha fermato? Secondo fonti vicine alla Casa Bianca, Steve Bannon – vecchio consigliere e voce della base MAGA – avrebbe fatto visita al presidente proprio il giorno dell’annuncio del dietrofront. Non è difficile immaginare il messaggio: non finire come Bush in Iraq.
L’idea di una guerra rapida, chirurgica, patriottica…sta lasciando spazio al terrore di un pantano. La memoria del 2003 è ovunque a Washington, anche nei circoli trumpiani. Una guerra in Iran significherebbe centinaia di miliardi di dollari, instabilità regionale, attacchi alle truppe americane, crollo del consenso interno. E infatti è proprio tra i repubblicani trumpiani che cresce l’opposizione all’intervento. Tulsi Gabbard, oggi voce indipendente vicina alla destra, ha dichiarato che: “L’Iran non sta cercando di ottenere una bomba nucleare. Attaccarlo sarebbe un errore catastrofico”. Trump, visibilmente infastidito dalla critica, ha replicato due giorni fa davanti ai cronisti: “Non mi importa di cosa dice lei”. Una risposta secca, nervosa. Ma significativa: mostra quanto le crepe si stiano allargando dentro lo stesso campo trumpiano. E mentre alcuni falchi neoconservatori spingono per “colpire adesso”, la base MAGA riflette. E teme.
Un sondaggio CNN rivela che la maggioranza degli americani considera l’Iran una minaccia nucleare globale, ma solo una minoranza sostiene un attacco preventivo. Allo stesso tempo, Netanyahu – galvanizzato dalla risposta americana ai droni – continua ad alzare i toni: “Israele può raggiungere da solo tutti i suoi obiettivi, ma accoglie con favore il sostegno americano”. Un invito sottile ma insistente. In apparenza, Israele dice di non avere bisogno di Washington. In realtà, Netanyahu ha incastrato Trump in una trappola diplomatica perfetta: se non interviene, sembra debole. Se interviene, rischia di fallire. Ma intanto L’America resta spaccata…anche su altro. Mentre Trump riflette sull’Iran, a New York l’arresto da parte di ICE del candidato sindaco Brad Lander, colpevole di aver difeso dei migranti che gli agenti stavano arrestando dentro un tribunale, ha scatenato la bufera. La governatrice Kathy Hochul ha definito l’operazione senza mezzi termini: “Una stronzata.”
Le città “blu” sono sotto pressione: arresti quotidiani di immigrati, anche minorenni, provocano tensione, mentre la Casa Bianca finge di non vedere. Alcuni sostengono che queste azioni servano a deviare l’attenzione dalla crisi mediorientale. Ma la strategia rischia di ritorcersi contro. Bisogna anche ricordare che il 14 giugno milioni di americani sono scesi in piazza nel No Kings Day, una mobilitazione pacifica contro l’autoritarismo, contro la guerra e – di fatto – contro Trump. La parata militare che il presidente aveva voluto organizzare a Washington si è trasformata invece in un flop spettacolare: reparti mancanti, presenze dimezzate, e nessun entusiasmo popolare. Un segnale. Trump ha costruito la sua carriera politica su slogan semplici, colpi di scena, negoziazioni da manuale. Ma questa volta, l'”Art of the Deal” non basta.
È Netanyahu a dettare il ritmo. È la memoria dell’Iraq a bloccare le mani. È la base MAGA a esitare. E sono i democratici – per una volta – a guardare senza dover fare nulla. In mezzo a tutto questo, Donald Trump è solo davanti alla sua decisione più irreversibile. Guerra o diplomazia. Grandezza o disastro. E stavolta, non ci sono tweet che possano salvarlo.
-Foto IPA Agency-
(ITALPRESS).