Il Trump furioso e terrorizzato dall’ombra di Epstein: cosa scatenerà?

President Donald Trump delivers an address to the Nation from the Diplomatic Reception Room of the White House, Wednesday, Dec. 17, 2025. (POOL Photo by Doug Mills/The New York Times

di Stefano Vaccara

NEW YORK (STATI UNITI) (ITALPRESS) – In Sicilia si dice che “cu vucia chiu’ forti avi ragiuni”: chi grida più forte, alla fine, la spunta. È un proverbio nato tra i banchi dei mercati di Palermo, come appunto la Vucciria che significa gridare e dove l’urlo serve a vendere. Ma in America, quando un presidente grida in prima serata, spesso non sta vendendo un’idea: sta difendendo un potere che sente scivolare.

E mercoledì sera Donald Trump, nel suo discorso “sull’economia”, ha dato proprio quell’impressione: non il leader sicuro del 2024, ma un uomo che parla, anzi urla con l’ansia di non essere più creduto. Il punto non è solo cosa ha detto – confine “sicuro”, prezzi “giù”, dazi come macchina miracolosa – ma come lo ha detto: Un “rant”, nel senso pieno: sfogo e intimidazione insieme.

La distanza con la realtà quotidiana resta enorme: l’idea che l’inflazione sia ormai “finita” e che i prezzi siano scesi in modo generalizzato non coincide con quello che molte famiglie vedono tra spesa, affitti e bollette. E quando lo scarto tra propaganda e esperienza si allarga, alzare la voce non basta più: anzi, tradisce panico. Dentro questo clima si inserisce l’intervista di Susie Wiles, la chief of staff della Casa Bianca a Vanity Fair.

È stata raccontata come un ritratto, ma sembra soprattutto un messaggio interno. Wiles descrive Trump con una formula che vale più di un editoriale: una “personalità da alcolizzato”, cioè una personalità che opera convinta che “non ci sia nulla che non possa fare. Nulla, zero, niente”.

Qui non è psicologia da salotto: è la cornice perfetta per capire l’azzardo continuo di Trump, la sua inclinazione a spingersi sempre oltre, e l’istinto a punire chiunque che venga percepito come non abbastanza allineato. Nell’intervista, Wiles ridimensiona il vice presidente JD Vance e ne mette in dubbio la solidità: non è gossip, è disciplina di clan. Nel trumpismo la successione è un tradimento preventivo; e quando l’aria si fa pesante, il capo manda segnali.

Poi arriva un altro terremoto, l’inchiesta del New York Times firmata da Nicholas Confessore e Julie Tate, che ricostruisce in modo dettagliato quanto fosse stretto e prolungato il rapporto tra Trump ed Epstein, molto oltre la versione raccontata dal presidente. Complimenti al NYT per l’inchiesta, ma perché questa ricostruzione solo adesso? Perché non un anno fa, prima delle elezioni? O sei anni fa, quando Epstein muore in carcere e ancora Trump è alla Casa Bianca? Se oggi tutto appare “finalmente dicibile”, vuol dire che per anni il sistema mediatico e politico ha convissuto con un non-detto troppo comodo per troppi.

A rendere l’atmosfera ancora più tossica ci ha pensato lo stesso Trump con un post sul tragico assassinio del regista Rob Reiner e della moglie Michele uccisi dal figlio torrico dipendente: invece di un messaggio di cordoglio, Trump ha scritto che Reiner soffriva di una “malattia mentale debilitante chiamata Sindrome da Derangement Trump”.

È un testo che non colpisce solo per la crudeltà, ma perché sembra il prodotto di una paranoia che non distingue più tra lutto e vendetta. Così mentre a Washington si consuma questo degrado, arriva anche un segnale forte da Roma: Papa Leone XIV ha nominato Ronald A. Hicks nuovo arcivescovo di New York, con un profilo percepito come più attento a dignità e migranti rispetto alla linea dura trumpiana. Proprio mentre Trump dichiara guerra agli immigrati, la Chiesa soffia il vento a New York in direzione opposta.

Ecco perché questa settimana la sensazione è che la Casa Bianca di Trump sembra sul punto di sgretolarsi come un castello di carta: economia raccontata come favola, base MAGA agitata dal caso Epstein, faide interne gestite a colpi di “interviste-messaggio”, uscita pubblica sempre più rancorosa e fuori controllo. Il problema è che un leader arrabbiato e impaurito può diventare anche pericoloso.

E quando Trump sente l’accerchiamento, la tentazione storica è una sola: spostare l’attenzione. Se c’è uno scenario plausibile per una “distrazione di massa”, oggi, è l’estero: e il Venezuela potrebbe diventare la miccia perfetta. Perché il rumore, quando non convince più nessuno in casa, lo si alza altrove.

-Foto IPA Agency-
(ITALPRESS).

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