La scuola italiana dopo il lockdown

Si è parlato molto negli ultimi anni della crisi profonda in cui versa la scuola italiana. Della sua difficoltà a tenere testa ai suoi pur migliori standard del passato e della sua macroscopica incapacità a sostenere le esigenze di adeguata formazione per giovani da impegnare nel mondo produttivo. Tocca propio alla scuola interpretare il ruolo di principale soggetto promotore della cultura digitale attraverso una didattica mirata, in ogni ambito del mondo della istruzione. Questa oggettiva situazione descritta, è ritenuta tra i primissimi fattori del progressivo arretramento della competitività, con costi altissimi per la economia e coesione sociale. Più volte si è tentato di scuotere il mondo scuola da questi deficit, anche nel recente passato, ma si è trattato più di propaganda che di una azione sistematica e mirata, come è accaduto nel caso recente delle ‘grida manzoniane’ del governo Renzi sulla ‘buona scuola’, che in definitiva si è tradotto in un bonus di 500 euro per insegnanti e decine di migliaia di assunzioni. Con premesse di questo tipo, il lockdown, non poteva che trovare impreparato il comparto scolastico nelle sue variegate articolazioni. Insomma nei primi giorni è sembrata spaesata, impacciata incapace di muoversi: ne si è potuto contare sulla pur esistente ma insufficiente piattaforma, ne sulla eventuale intraprendenza dei dirigenti scolastici regionali, ne sui presidi, ne tantomeno sui singoli insegnanti. Tutti questi soggetti, hanno risentito della scarsa cultura digitale molto diffusa e dalla incapacità di rendersi flessibile a ragione della gerarchizzazione interna. Ad esempio, le scuole private paritarie, generalmente, hanno saputo reagire meglio e più rapidamente avvalendosi di piattaforme semplici e gratuite, grazie anche a un’agilità ed efficienza propria di realtà piccole, coese e insegnanti forse più liberi di muoversi. Peraltro, non è certamente da sottovalutare la inesistenza di norme di legge e contrattuali a cui rifarsi nella straordinaria situazione di gestione o in regime di telelavoro (lavoro on line in orari prestabiliti) o di lavoro agile (lavoro per progetto effettuabile nelle ore a discrezione del lavoratore).
Problemi neanche risolti del tutto con il decreto legge 22 dell’8 aprile, che si è sovrapposto al contratto di lavoro, per nulla affrontato per un necessario adeguamento. Con precedenti di questo tipo, andati così impietosamente sotto i riflettori provocati dal Covid-19, non credo che la scuola potrà mantenersi in piedi con le attuali contraddizioni. Il Paese è stato costretto a cambiare passo in ogni settore e, a maggior ragione, questo clima positivo non potrà che investire anche l’istruzione. Infatti, se il Governo dovrà investire per lo sviluppo con i prestiti privilegiati UE, lo dovrà fare fare per plessi scolastici più adatti e decorosi, con attrezzature avanzate per la didattica, con programmi più confacenti alle esigenze delle produzioni e servizi, con personale certamente preparato in pedagogia e psicologia, ma certamente anche a forte cultura digitale. Attualmente secondo i dati Ocse, l’Italia è al 72mo posto su 79, per competenze digitali degli insegnanti. Dunque, quando il governi annunciano così pomposamente assunzioni, occorrerebbe prima aggiornarli nelle conoscenze digitali, e poi impiegarli, oltre a pagarli molto meglio. Non serve a nessuno una scuola senza missione e con insegnanti frustrati e mal pagati.
(ITALPRESS).

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