Landini “Cambiare modello di sviluppo, lavoro torni al centro”

Un cambio del modello di sviluppo per affrontare le tante cose che non stanno funzionando: dal lavoro alla scuola, alla sanità, agli investimenti. È la proposta della Cgil per ‘rimettere al centro le persone e il lavoro, è un’operazione culturale’. Il segretario generale del sindacato, Maurizio Landini, ne ha parlato in un’intervista a Claudio Brachino per la rubrica ‘Primo Piano’ dell’Agenzia di stampa Italpress.

È ricominciata la scuola, è rimasto soddisfatto o è spaventato come molte famiglie che temono si richiuda tutto?

“Spero che questo non avvenga, il nostro obiettivo era lavorare perché fosse possibile aprire subito per tutti e non richiudere. Una delle discussioni che avevamo fatto e che sta emergendo, è che c’era bisogno di fare più assunzioni. Ma con onestà, proprio perché il problema è complesso e nessuno ha la bacchetta magica, credo che paghiamo anche ritardi di anni. Bisognerebbe avere un progetto, non bisogna preoccuparsi solo di come superare l’emergenza ma di come usiamo questa fase per cambiare davvero la scuola. Noi abbiamo scuole fatte prima del 1970, abbiamo scuole in zone sismiche, abbiamo zone del Paese in cui le scuole non ci sono. Penso che in questa fase sia necessario portare l’obbligo scolastico a 18 anni, fare gli asili nido, far diventare la formazione un diritto soggettivo di tutte le persone che lavorano. Credo che bisogna aprire questa discussione, è una questione generale di qualità, di crescita, cultura e civiltà del nostro Paese”.

Mancano ancora 60.000 insegnanti, cosa bisogna fare in concreto?

“C’è da cambiare un meccanismo che c’è da anni, c’è una distinzione tra organico di diritto e organico di fatto. Sulla carta studiano un organico di diritto che è basso e tutti gli anni ci sono dei precari, bisogna quindi che gli organici di fatto diventino quelli di diritto, ciò vuol dire fare un investimento e cambiare radicalmente questa cosa. Se non intervieni la scuola non fa altro che fabbricare dei precari, io credo che sia il momento, per l’esigenza che c’è, di risolvere dei problemi e riformare il nostro sistema scolastico”.

Il Covid, lo dico con rispetto delle vittime, magari come effetto collaterale può darci lo stimolo per risolvere qualche problema che ci siamo portati dietro da anni.

“Da un certo punto di vista bisogna cogliere l’opportunità che il Covid ha avuto di mettere a nudo tutti i nostri limiti e le nostre difficoltà. Infatti il nostro problema non è tornare a prima del Covid, perché le cose già non funzionavano, bisogna intervenire e per questo stiamo rivendicato un cambio del modello di sviluppo che affronti tante cose che non stanno funzionando: dal lavoro alla scuola alla sanità, agli investimenti”.

Per quanto riguarda l’occupazione, numeri alla mano, il Covid ha peggiorato la situazione. Sul tema lavoro qual è la ricetta della Cgil a breve termine?

“L’esperienza che abbiamo alle spalle dovrebbe insegnarci qualcosa. In questi 20 anni che abbiamo alle spalle la teoria era ‘lasciamo fare al mercato’, ma non abbiamo risolto, anzi, sta emergendo che c’è bisogno di scegliere dei filoni di investimento precisi, pensiamo alla sanità pubblica, se il nostro problema è connettere tutta Italia vuol dire fare investimenti, spendere i soldi nel 5G, vuol dire un intervento pubblico, un ruolo di CdP, vuol dire fare una politica industriale. Il mercato da solo non è in grado di affrontare una situazione di questa natura. Quando dico che lo Stato deve tornare ad avere un ruolo, non penso che deve tornare a gestire le imprese, serve un indirizzo, delle scelte, non possiamo continuare a dare soldi a pioggia, è arrivato il momento di fare delle scelte precise e individuare delle priorità. Questo vuol dire creare lavoro. Quindi individuare delle priorità, investire, far ripartire gli investimenti pubblici ma anche quelli privati, serve una riforma fiscale perchè intervenire sul fisco vuol dire redistribuire anche la ricchezza. Con Cisl e Uil abbiamo fatto una piattaforma, l’abbiamo presentata al governo e stiamo chiedendo di aprire una trattativa”.

Abbiamo un record negativo di precarietà ma anche di Neet, siamo tornati indietro di 30-40 anni. Un giovane che nasce in una famiglia abbiente avrà lavoro e successo, mentre chi nasce in una famiglia meno abbiente ci metterà 5 generazioni per arrivare a quel livello.

“C’è stata una regressione, abbiamo l’abbandono scolastico tra i più alti, abbiamo un livello di laureati e diplomati tra i più bassi. Le leggi fatte in questi anni, compreso il Jobs Act, sono leggi sbagliate che vanno cambiate. Penso che in questo caso ci vorrebbe un nuovo statuto dei lavoratori, le persone devono avere gli stessi diritti. Bisogna investire sulla qualità del lavoro, la competizione deve essere giocata sull’intelligenza che le persone mettono nei prodotti. Paghiamo anche il fatto che siamo il Paese che ha investito meno nell’innovazione”.

Le sembra che in questo Paese si sia sfilacciato un rapporto tra chi produce e chi lavora? Dobbiamo forse riannodare questo tessuto sociale?

“Il problema è la svalorizzazione del lavoro, quello che è avvenuto in questi anni, e la pandemia ha fatto emergere questo tema, è che il lavoro quasi non c’era più, se tu hai premiato la finanza e questa decide che industria fai, se la logica è finanziaria penalizzi il lavoro. Anche le delocalizzazioni hanno determinato che i soldi potevano girare liberi per il mondo e questa cosa è stata messa a scapito dei diritti. Credo ci sia un problema anche culturale, di ricostruzione di una responsabilità sociale di fare l’impresa. Con la pandemia abbiamo visto che sono tornati ad avere peso dei lavori che la gente neppure sapeva che esistevano. Bisogna rimettere al centro le persone e rimettere al centro il lavoro, è una operazione culturale. L’imprenditore che investe sul lavoro non troverà mai il sindacato e i lavoratori contrari, chi investe sullo sfruttamento troverà una resistenza e una reazione del sindacato”.

Con il Covid sono caduti dei miti, il culto della flessibilità ma anche quello del reddito di cittadinanza, che poteva essere giusto ma che senza una formazione non cambia il concetto della povertà. Questi miti li mandiamo in cantina?

“Sicuramente la pandemia ha accelerato tutti i processi, c’è il lavoro a distanza e come si è visto tutti i campi dell’economia e sociali sono coinvolti, c’è un cambiamento. La tecnologia cambierà il lavoro, probabilmente ci saranno lavori che oggi non immaginiamo neanche, ma allo stesso tempo devi avere tutto il Paese connesso, cambierà il contenuto del lavoro ma le persone rimangono e si porrà anche il problema del tempo del lavoro. Penso che dentro l’orario di lavoro deve diventare normale che ogni settimana alcune ore sono pagate per lo studio e l’aggiornamento, questo è un altro pezzo di evoluzione che si dovrà avere. Ognuno di noi dovrà imparare sia a lavorare in presenza che a distanza, credo che questo significhi come riprogettare tutto il conteso. L’oro di questa fase sono i dati e il problema è chi li controlla, credo che ci dovrebbero essere delle piattaforme che governa il pubblico, è anche una questione di democrazia e anche in questo caso di regolazione del mercato”.

C’è stata una grande discussione sul Referendum, cosa succede se vince il no e cosa succede se vince il sì?

“Credo che in entrambi i casi rimanga un problema da risolvere. Al di là del numero dei parlamentari, quello che oggi bisogna cambiare è la legge elettorale, abbiamo una legge elettorale folle dove uno dei problemi che abbiamo è che non siamo più noi cittadini che eleggiamo, abbiamo dei nominati decisi da dei capi partito e non a caso questo determina che chi è parlamentare rischia di non rispondere a chi in linea teorica l’ha votato. Credo che questo sia un grande tema che va riproposto. C’è poi un tema di funzionamento del Parlamento ed eventualmente di una riforma, proprio perché il Covid ha riaperto una domanda di rappresentanza collettiva, il tema aperto è come si riforma una legge elettorale e che tipo di miglior funzionamento dare al Parlamento. In ogni caso il referendum non risolve il problema della legge elettorale e il funzionamento del Parlamento, credo che queste siano cose da affrontare”.

Mi sembra sia tornata necessaria l’intermediazione sindacale, l’idea che ci siano delle figure ponte e di dialogo tra mondo dei lavoratori e mondo delle imprese.

“La complessità dei problemi evidenzia che una persona da sola non risolve nessun problema, c’è bisogno di ridare un senso alle azioni collettive, alla rappresentanza collettiva. Nella pandemia se c’è una cosa che ha dato visibilità e credibilità al Paese è stato, ad esempio, quando abbiamo fatto l’accordo del protocollo sulla sicurezza o quando abbiamo deciso che non si licenziava. Sono cose che hanno dimostrato che i soggetti collettivi, di rappresentanza sono importanti. Proprio perché una situazione così difficile non era mai stata vissuta, bisogna rivolgersi all’intelligenza delle persone. Ho imparato a diffidare di chi pensa che da solo risolve i problemi, dobbiamo uscire da questo, di salvatori della patria non abbiamo bisogno perché o ci si salva tutti insieme oppure non ci si salva. Abbiamo visto che senza l’aiuto europeo non ne usciamo, qualcuno in questi anni ha teorizzato che bisognava ‘recintarsi’, credo sia emerso che questa logica non sia in grado di affrontare i problemi, è una strada sbagliata”.

I soldi dell’Europa sono tanti, lei ha detto “Vogliamo esserci anche noi al tavolo”, concretamente cosa bisogna fare?

“Secondo me non bisogna disperdere questi soldi, c’è bisogno di una discussione per individuare delle priorità rapide, non ci possono essere 700-800 progetti, questo vuol dire non averne uno. Ci sono 5-6 grandi filoni su cui decidere, credo che serva anche una autorità centrale del governo che coordini questo, noi non possiamo avere 21 sistemi sanitari, 21 politiche industriali diverse per ogni Regione, sarebbe una follia. Nel 2001 c’è stato un errore quando si è fatta la riforma del Titolo V che sarebbe utile rivederla. Oggi c’è bisogno di individuare delle priorità e avere un coordinamento per realizzare i progetti, penso alla sanità, alla scuola, a un piano per il digitale, alla questione ambientale. I soldi europei te li danno condizionati a determinati progetti, una volta presentati non è che se cambia il governo cambiano anche loro. Per questo dico che adesso è il momento che il Parlamento e le parti sociali siano coinvolti per indicare la strada”.

Abbiamo iniziato con la scuola e chiudiamo con la scuola, un voto alla Confindustria di oggi?

“Io voti non ne do, penso che una serie di affermazioni che il nuovo presidente di Confindustria ha fatto non siano condivisibili. Questa idea di superare i contratti nazionali di lavoro credo sia un errore anche per le imprese, noi abbiamo troppi contratti e il problema è sicuramente ridurre il numero, ma l’idea che ci siano dei contratti nazionali che stabiliscono regole e diritti è utile anche per le imprese. Dire ‘lasciamo fare alle imprese che risolve tutti i problemi’ è un altro errore, è l’idea di poter avere la libertà di licenziare per poter riorganizzare. Noi oggi abbiamo bisogno di trovare una mediazione tra gli interessi del lavoro e dell’impresa, ma ci deve essere una pari dignità tra i due soggetti. Il lavoro deve avere di nuovo una sua visione, chi lavora deve poter avere il diritto di partecipare alle decisioni che vengono assunte all’interno della sua impresa. Questo è un punto importante: un’impresa da sola non risolve i suoi problemi, ha bisogno delle persone che lavorano e se loro hanno deciso di organizzarsi in sindacato, bisogna riconoscere questo spazio di confronto e mediazione sociale. Questa è la democrazia, è l’unico modo di affrontare la complessità che abbiamo di fronte”.

Le auguro buon lavoro, ci sono talmente tante cose da fare e cruciali per la vita di tutti noi, democraticamente per la vita di tutti che forse per una volta c’è bisogno che gli italiani smettano di fare i Guelfi e i Ghibellini e mettano le loro energie insieme, con le varie emergenze insieme per risolvere i problemi.

“Sono d’accordo. È il momento di unire e non di dividere”.

(ITALPRESS).

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