di Raffaele Bonanni
ROMA (ITALPRESS) – I risultati delle ultime regionali – scontati già prima dello spoglio, come certi finali annunciati nei feuilleton ottocenteschi – hanno riacceso il rito italico del “cambiamo la legge elettorale”. Il centrosinistra, confortato da proiezioni che dal voto locale volano alle politiche del 2027, vede la partita riaperta e intima al centrodestra di non toccare il Rosatellum: non per amore della Costituzione, ma per istinto di sopravvivenza.
Il centrodestra, dal canto suo, agita l’ennesimo premio di maggioranza come se fosse la pietra filosofale della governabilità. Due campi opposti, stessa premura: garantirsi il vantaggio di domani con le regole di oggi. Nel mezzo, una sagra di argomenti di comodo.
Il proporzionale sarebbe “disgregatore delle alleanze”; le preferenze “premierebbero i ricchi” e il campanilismo. Sono obiezioni scelte dallo scaffale secondo convenienza, come in un supermercato delle idee dove ogni partito riempie il carrello con ciò che gli serve oggi. Nessuno, però, nomina il convitato di pietra: l’astensione, che sbriciola la legittimazione democratica molto più di qualunque formula di riparto dei seggi.
Un Paese che vota in due su tre – e ormai spesso in due su cinque – non è più una democrazia malata di tecnica elettorale: è una democrazia che smarrisce il senso del voto.
Da qui la domanda che nessuna segreteria osa farsi: quale legge mobilita davvero il voto? La stabilità democratica nasce da due semplici evidenze: l’elettore deve poter riconoscere chi lo rappresenta e deve poter scegliere persone e programmi che gli somiglino. Quando questi due criteri funzionano, l’urna torna ad avere un senso; quando saltano, resta solo la cooptazione dall’alto e il cinismo dal basso.
L’astensionismo al 40% non è una statistica: è una crepa strutturale. Calamandrei ricordava che la Costituzione è “un programma”, non un talismano; quel programma presuppone cittadini presenti, non spettatori. E Bobbio ammoniva: quando la partecipazione si ritira, la democrazia si scolora in oligarchia elettiva. Continuare a litigare sul meccanismo senza curare la fiducia equivale a lucidare l’auto mentre finisce la benzina. Per questo la riforma vera è politica prima che aritmetica davvero.
Invocare riforme a colpi di maggioranza, senza un confronto pubblico vero, significa scavare la fossa alla Repubblica che si dice di voler “rafforzare”. Gli anglosassoni – spesso citati a sproposito – votano con leggi antiche non per culto della tradizione, ma per la percezione di imparzialità: il gioco è lo stesso per tutti, da sempre. Noi, invece, cambiamo regole come cambiamo allenatore dopo una sconfitta, e poi ci stupiamo se la tifoseria non viene più allo stadio.
In un’Italia attraversata da guerre ai confini d’Europa, da transizioni economiche e tecnologiche che ridisegnano lavoro e diritti, la priorità non è l’ennesimo trucco contabile. È ricostruire il patto repubblicano: ridare peso alla scelta dei cittadini, ridurre la distanza tra voto e potere, restituire dignità alla partecipazione. Il resto è tattica di giornata. E la democrazia non vive di tattiche, ma di popolo.
-Foto IPA Agency-
(ITALPRESS).









