
di Stefano Vaccara
NEW YORK (STATI UNITI) (ITALPRESS) – L’Italia arriva all’80esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite in una posizione scomoda ma decisiva. Non è un gigante geopolitico, ma nemmeno un Paese che può permettersi di fare tappezzeria al Palazzo di Vetro: con il suo peso storico nelle missioni di peacekeeping, il ruolo nel Mediterraneo e il suo essere membro fondatore dell’Unione Europea e della NATO, Roma sa che a New York si gioca parte della sua credibilità internazionale.
La premier Giorgia Meloni e il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani atterrano in un’ONU segnata da celebrazioni e crisi: gli 80 anni della sua fondazione coincidono con tagli al bilancio, richieste di riforme e, soprattutto per gli spintoni di Trump, un multilateralismo sempre più fragile. Gli Stati Uniti, tradizionalmente il principale contributore, hanno già ridotto di oltre un miliardo i fondi e minacciano nuovi tagli. António Guterres, pur non essendo ancora “un’anatra zoppa” – come ci ha ricordato il suo portavoce Stephane Dujarric dopo una domanda provocatoria – insiste che non gli restano “pochi mesi”, ma tempo sufficiente per portare avanti il piano UN80: ridurre burocrazia, riallineare i programmi, e rendere l’ONU più snella ed efficace. Meloni e Tajani dovranno anche imparare a “ballare il Waltz”: il neo-ambasciatore USA Mike Waltz, fedelissimo di Trump appena confermato dal Senato, che porta con sé una visione kissingeriana di “balance of power” ora tanto amata dal suo presidente. In pratica: le grandi potenze decidono, i medi e piccoli si adeguano. Una linea che cozza con il multilateralismo caro all’ONU e che ridimensiona automaticamente il margine di Paesi come l’Italia.
Per Roma, i dossier caldi non mancano. In Ucraina, l’Italia resta allineata con la NATO e con l’UE, ma non può ignorare i segnali spesso ambigui che arrivano da Washington nei rapporti con Putin. In Medio Oriente, la situazione è ancora più delicata: da una parte c’è il sostegno “incondizionato” di Trump a Netanyahu, dall’altra la scelta di Francia, Regno Unito, Canada e Australia di riconoscere lo Stato di Palestina. Tajani ha ribadito che “non è il momento” del riconoscimento, insistendo sul fatto che Hamas resta un’organizzazione terroristica. È una linea prudente che rischia però di isolare Roma in Europa e di alimentare tensioni interne: lunedì in Italia è previsto uno sciopero generale che porterà in piazza milioni di persone per denunciare quello che i sindacati e gran parte dell’opinione pubblica definiscono il “genocidio” a Gaza.
In questo quadro, la Farnesina gioca la carta del peacekeeping, che da decenni rappresenta il principale asset italiano alle Nazioni Unite. L’Italia resta oggi il più grande contributore occidentale di caschi blu, un ruolo che le ha garantito prestigio e influenza nei tavoli ONU. Tajani vorrebbe proiettare questo capitale politico anche nel futuro di Gaza, immaginando una missione internazionale “sullo stile UNIFIL” guidata da un Paese arabo, ma con un robusto contributo italiano. L’idea, tuttavia, sembra indigesta per l’attuale governo israeliano, che ha fatto pressione sugli americani per lo smantellamento di UNIFIL entro il 2026 e non accetterebbe la sua “ricomparsa” in un territorio ancora più sensibile. Con Trump, la “rotta comune” occidentale all’ONU non è più scontata. Alcuni dossier recenti lo dimostrano: su Gaza, Londra e Parigi si sono trovate in certe fasi persino più vicine a Mosca e Pechino che a Washington, votando a favore di risoluzioni che gli Stati Uniti hanno bloccato con il veto. È il segnale che l’unità dell’asse euro-atlantico, che per decenni ha dettato la linea al Palazzo di Vetro, oggi vacilla. Per Roma significa una cosa sola: senza una bussola propria rischia di restare schiacciata tra alleanze che non coincidono più automaticamente.
E poi c’è la Libia, tema che per l’Italia resta vitale. Certo soprattutto per l’energia, ma anche per la gestione dei flussi migratori che partono dalle coste nordafricane e infiammano il dibattito politico interno. Qui Roma non può permettersi passi falsi: deve restare influente, perché chi perde terreno in Libia perde un pezzo cruciale della propria sicurezza nazionale. Meloni parlerà all’Assemblea probabilmente mercoledì sera (già notte in Italia). Dovrà tenere l’equilibrio tra non sembrare troppo “filo-americana” e isolarsi ancora di più in Europa, e allo stesso tempo non mostrarsi troppo “filo-europea” rischiando di irritare Trump. Mission impossible? Quasi, ma la Farnesina ha l’esperienza per giocare la partita senza sbagliare. Perché l’Italia, bisogna sempre ricordarlo, all’ONU conta: ha frenato per trent’anni la riforma del Consiglio di Sicurezza che l’avrebbero retrocessa dietro Germania e Giappone, mantiene il più grande contingente occidentale nei caschi blu, e ha spesso saputo muoversi da “equilibrista” credibile. Ma mai come a questa UNGA80 il filo su cui cammina è sottile.
– foto ufficio stampa Palazzo Chigi –
(ITALPRESS).