di Antonio Ricotta
PALERMO (ITALPRESS) – Natal, Brasile, 24 giugno 2014. Suarez morde Chiellini, Godin segna, l’Uruguay vince. Italia fuori dai Mondiali. Neanche un’ora dopo le dimissioni di Cesare Prandelli e di Giancarlo Abete. Undici anni fa. In mezzo nuovi ct (Conte, Ventura, Mancini, Spalletti), altri presidenti federali (Tavecchio, Gravina), l’acuto del meraviglioso Europeo vinto nel 2021 con il Mancio, qualche discreta Nations League, ma una costante e deprimente situazione: Italia fuori dai Mondiali. E attenzione, non dopo la fase a gironi come 11 anni fa. No, perché la Nazionale quattro volte campione del mondo non è riuscita a conquistare neanche il biglietto di ingresso per Russia2018 e Qatar2022. In entrambe le occasioni spareggi fatali, prima con la Svezia (Ventura ct), poi con la Macedonia (il Mancio campione d’Europa in panchina). Un incubo calcistico, una generazione privata dell’appuntamento pallonaro più bello, delle emozioni (che siano gioie o dispiaceri) più forti.
Siamo tornati al “mai più” di 8 anni fa, allo stesso “mai più” di quattro anni e mezzo dopo. Non ripeterlo significa superare lo scoglio nordirlandese e poi quello gallese o bosniaco. Si può fare e ci mancherebbe. Anzi si deve fare. Non possiamo permetterci un’altra apocalisse calcistica, ci giochiamo tutto e questo tutto non è solo il Mondiale2026, è un punto di non ritorno, è la sopravvivenza di un calcio, quello italiano, che di problemi ne ha a valanga, ma che è vivo, che lotta come lottano i ragazzi delle giovanili azzurre, ma che rischia di prendere un altro cazzotto da knockout che manderebbe al tappeto non solo la Nazionale, ma appunto, tutto il sistema. Ce lo meritiamo? Sicuramente non tutti. Non quei ragazzi che gli azzurri al Mondiale non li hanno mai visti, non la nostra storia che ci permette di portare, come soltanto la Germania può fare, quattro stelle sul petto, di averne appena una in meno dei pentacampeao del Brasile, ma una in più dell’Argentina e due in più della Francia.
Tutto questo però non va in campo, in campo non vanno i desideri e le speranze dei tifosi, non vanno gli albi d’oro. In campo va Donnarumma, uno dei più forti se non il più forte al mondo nel suo ruolo, vanno Bastoni e Calafiori, difensori top, vanno centrocampisti come Tonali e Barella che tutti ci invidiano, vanno centravanti come Kean e Retegui che il gol nel sangue ce l’hanno. E’ vero non ci sono i grandissimi di qualche decennio fa (Nesta, Cannavaro, Pirlo, Totti e Del Piero e via così), ma vedere tutto nero non serve e non è neanche giusto. L’Irlanda del Nord non ha Donnarumma, nè Calafiori o Tonali, e se invece di vedere tutto nero ci sforzassimo di guardare a tinte chiare, anzi azzurre, anche Galles e Bosnia questi campioni se li sognano. Certo bisognerà vedere quali saranno le condizioni dei giocatori, come ci arriveremo, mancano quattro mesi, uno spazio temporale calcisticamente lunghissimo.
A proposito di tempi, il direttore editoriale Italpress, Italo Cucci, uno che la storia del calcio la conosce benissimo perché l’ha scritta e continua a scriverla raccontandola, ricorda come fosse ieri il dicembre del 1957 quando l’Italia cadde a Belfast. Fece malissimo, racconta, quella bocciatura. E’ vero anche che nessuno dimentica lo 0-0 del novembre del 2021 quando i campioni d’Europa inciamparono nella capitale nordirlandese, sprecando il match point per chiudere come primi il girone e poi caddero fragorosamente nello spareggio con la Macedonia. Come consiglia Gigi Buffon, però, è giusto e doveroso scrollarsi di dosso negatività e paure. Meglio fare spazio a responsabilità, grinta e appartenenza, caratteristiche nel Dna di Gennaro Gattuso, uno che queste cose sa trasferirle e in questi mesi da ct in parte lo ha già fatto. Prima l’Irlanda del Nord in casa (Bergamo è pronta), poi, perché non può non esserci un poi, la finale a Cardiff o in Bosnia, in ambienti caldi, caldissimi, ma lo erano anche San Siro e il Barbera, eppure svedesi e macedoni ne uscirono freschi e vincenti. Adesso tocca a noi, l’America non è poi così lontana.
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(ITALPRESS).










