di Stefano Vaccara
NEW YORK (STATI UNITI) (ITALPRESS) – Il presidente Donald Trump ha ordinato il bombardamento dell’impianto nucleare iraniano di Fordo, scavato nelle montagne e considerato il cuore del programma atomico di Teheran. Una decisione che né Biden, né Obama, né Bush o Clinton avevano mai osato prendere, per timore di trascinare gli Stati Uniti in una guerra regionale incontrollabile.
Per Trump, soprannominato ormai “Taco Trump” per la sua tendenza a scappare dalle decisioni irreversibili, è stato un punto di svolta. Ha agito controvoglia, incastrato dalla pressione di Netanyahu: se non avesse colpito, Israele avrebbe intensificato gli attacchi nel tentativo di far crollare il regime di Teheran, con un rischio altissimo di destabilizzazione totale della regione. Attaccando, Trump può invece sperare di forzare ancora Teheran a negoziare. Ma il prezzo è altissimo.
La Casa Bianca ha annunciato l’“annientamento” dell’impianto sotto le montagne, ma prove indipendenti sull’effettiva distruzione non ci sono. E proprio questo crea lo scenario più incerto e pericoloso della sua presidenza. L’Iran ha promesso ritorsioni, il Congresso potrebbe reagire per non essere stato consultato – Trump ha informato solo a operazione in corso – e ora monta la richiesta di impeachment, avanzata per prima dalla deputata di New York Alexandria Ocasio-Cortez.
Finora Trump non aveva mai disobbedito alla sua base, quella che lo ha sempre sostenuto “anche se sparasse a qualcuno sulla Quinta Avenue”. Ma ora lui ha sparato non a un passante, ma a uno Stato sovrano di 90 milioni di abitanti e i MAGA potrebbero non perdonarglielo. Se lo abbandonassero, il Congresso a maggioranza repubblicana sarebbe finalmente libero dal suo ricatto elettorale e tutto il programma trumpiano rischierebbe di crollare. In un durissimo editoriale pubblicato il giorno prima dell’attacco da The Atlantic, il politologo Robert Kagan avverte che “la maggiore vittima di un fallimento nella guerra contro l’Iran potrebbe essere la democrazia americana”. Il pezzo, intitolato “American Democracy Might Not Survive a War With Iran”, è una profezia inquietante: con lo stato di guerra, Trump potrebbe accentrare ancor più poteri, sospendere libertà civili e usare l’apparato militare per reprimere il dissenso. Secondo Kagan, la tentazione autoritaria di Trump troverebbe nelle leggi speciali di guerra lo strumento perfetto per consolidare il suo controllo: “Trump ha già messo il Dipartimento di Giustizia e la Guardia Nazionale sotto il suo comando personale – scrive – ora con la scusa della guerra, nulla potrà più fermarlo”.
Il Pentagono, stamattina nella voce del Segretario Hegseth, ha detto tutto e il contrario di tutto: sì, forse l’obiettivo è stato distrutto, ma l’Iran potrebbe ricostruirlo, Trump non vuole la guerra ma questa potrebbe invece durare a lungo. Persino John Bolton, l’ex consigliere nazionale di Trump e da tempo suo acerrimo nemico, ha lodato l’azione della Casa Bianca: “Meglio tardi che mai”, ha detto domenica mattina alla CNN. Ma altri, come il senatore democratico della California Adam Schiffer, mettono in dubbio la validità delle prove d’intelligence fornite da Israele.
E in molti, anche all’interno del Pentagono, si chiedono se davvero l’America possa sostenere una guerra nel Golfo con questa amministrazione così poco affidabile in competenze e preparazione dopo le “purghe” trumpiane degli ultimi mesi. Trump è giunto al bivio che non avrebbe mai voluto prendere: se l’attacco avrà successo e porterà a una tregua con l’Iran e magari poi alla pace con Israele, potrà rivendicare un risultato storico. Ma se scatenerà un’escalation regionale e attentati contro cittadini e soldati americani, potrebbe segnare l’inizio della fine della sua seconda presidenza e, come profetizza Kagan, anche un punto di non ritorno per la democrazia americana.
– foto IPA Agency –
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