PALERMO (ITALPRESS) – Un viaggio nella Sicilia occidentale, tra Palermo, Agrigento e Trapani. Incontri con attivisti, amministratori, studiosi, magistrati e giornalisti per indagare tre grandi questioni: la mancanza d’acqua, gli incendi e la povertà. E per capire come la mafia di oggi si nutre e approfitta di queste crepe. “Terra bruciata” è il dossier-inchiesta nel nuovo numero de lavialibera, rivista di Libera e Gruppo Abele. Un viaggio di 600 chilometri in una Sicilia dove attori privati e criminali approfittano dei vuoti lasciati dalla politica e delle opportunità offerte dalle “emergenze croniche”, ma anche laboratori di sperimentazione di nuove forme di partecipazione che tentano di affrontare questi problemi dal basso.
“Essere indifferenti o delegare significa lasciare il bene comune alla mercé dei più forti, furbi e spesso disonesti. In Sicilia come altrove – scrive Luigi Ciotti nell’editoriale – l’entità dei problemi da affrontare è enorme, ma vediamo anche persone determinate a non lasciarsi travolgere dal senso di impotenza e sopraffazione e l’informazione dà poco spazio al fermento civile. Bisogna affrontare le resistenze dei tanti che ‘stanno bene così’ e, per pigrizia o tornaconto, non desiderano affatto che si cambi. Partecipare è prendere parte e prendersi una parte di responsabilità anche quando non siamo direttamente coinvolti dal problema nell’immediato, non è detto che non lo saremo in futuro. E aspettare che siano sempre gli altri ad agire significa mettere nelle loro mani il nostro destino: rinunciare a una quota della nostra libertà”.
Il primo dato emerso è stato la crescente povertà. La Sicilia è agli ultimi posti nelle classifiche sulla qualità della vita, e Palermo è tra le città in cui le disuguaglianze sono più evidenti con il più alto tasso di povertà assoluta e relativa, aggravato da disoccupazione (superiore al 15%) e lavoro nero diffuso. La dispersione scolastica per l’anno 2021/2022, è stata pari al 21,1%, quasi il doppio rispetto alla media nazionale di 13,5%.Secondo il Forum sanità pubblica (2025), 70 mila palermitani non possono permettersi visite mediche e farmaci. In mezzo a tutto questo, le esperienze di associazionismo che hanno cura dei quartieri fanno fatica a tradursi in politiche pubbliche durature. E finché queste condizioni resteranno immutate, la criminalità organizzata troverà sempre manodopera a basso costo. La mafia non nasce dalla povertà, ma sa benissimo come usarla.
Poi c’è la questione acqua. La Sicilia si appresta ad affrontare un’altra estate di crisi idrica. Eppure i dati mostrano che il problema non è tanto la siccità, quanto la cattiva gestione: i volumi delle piogge sono oltre 7 volte il fabbisogno, ma gli invasi sono pieni in media solo per un quarto e più della metà dell’acqua immessa in rete viene persa. Nella provincia di Agrigento, quella maggiormente colpita, cresce il malcontento verso Aica, il gestore pubblico che ha sostituito Girgenti Acque, i cui vertici sono a processo per associazione a delinquere. Insieme ad altri sette, il comune montano di Santo Stefano Quisquina rifiuta di cedere le reti al gestore provinciale e ora lotta contro l’apertura di un nuovo pozzo. Intanto, le ingenti risorse messe a disposizione e la scarsa trasparenza hanno reso quello degli interventi d’urgenza, dalle autobotti all’apertura dei pozzi, un business opaco.
Infine, il dramma degli incendi. A due anni dagli incendi che hanno devastato il Palermitano nel luglio 2023, le cause non sono ancora state accertate e famiglie e imprese danneggiate non hanno ancora ricevuto i ristori promessi (solo nel capoluogo, gli indennizzi richiesti ammontavano a 11,2 milioni, quasi il doppio rispetto ai 6,1 stanziati dalla Regione nell’ambito dello stato d’emergenza). Sul fronte della prevenzione, i piani regionali antincendio restano sulla carta e 162 comuni siciliani non hanno istituito o aggiornato il catasto dei terreni percorsi da fuoco, necessario per evitare speculazioni.
Il dossier riporta la testimonianza di Andreina Albano, figlia di una vittima dei roghi del luglio 2023, che oggi milita nell’associazione Fenice Verde: “Da allora non si sono fatti passi avanti: niente prevenzione, nessuna pulizia dei terreni, nulla per evitare che succeda un’altra volta”.
Accompagna il dossier una intervista al procuratore capo di Palermo, Maurizio de Lucia, che affronta più temi, dallo stato di salute di Cosa Nostra, alle norme sull’intercettazioni, colletti bianchi e la questione carcere. “Cosa nostra oggi è più debole, ma non è scomparsa – dice il procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia -. Dopo l’arresto e la morte di Matteo Messina Denaro, la mafia siciliana tenta di riorganizzarsi tornando alla propria tradizione, con un ‘esercito’ e un modello di business da anni Settanta: affari e discrezione. Si dimostra ancora capace di attrarre molti giovani, spinti dalla povertà e dalla carenza di alternative, e di trattare con politici e imprenditori locali”. Intanto, la giustizia arranca: “Il sistema antimafia regge, ma è circondato da un sistema giudiziario che sta affondando, e che rischia di trascinare giù anche lui – dice de Lucia -. Perseguire i reati dei colletti bianchi oggi è impossibile, a meno che qualcuno confessi spontaneamente”.
Nell’intervista con lavialibera, Maurizio de Lucia lancia anche l’allarme sulla permeabilità del sistema carcerario: “La capacità dei detenuti di comunicare con l’esterno è impressionante, i telefoni sono ovunque. Non è il sintomo di una falla, ma di una situazione ormai fuori controllo. È così evidente che ci si potrebbe persino chiedere a cosa serva il carcere, se un capomafia – non quelli al 41 bis, perché lì il regime è più rigido – può continuare a gestire gli affari esattamente come faceva fuori. I telefoni sono ovunque, anche quelli di ultima generazione, che permettono di fare videochiamate con la stessa facilità di una persona in vacanza che chiama i familiari. Per farvi capire: oggi in carcere non entrano le armi solo perché loro non vogliono farle entrare”. Per il procuratore capo di Palermo, la responsabilità è “di chi non riesce a governare le carceri: le associazioni sindacali che rappresentano la polizia penitenziaria influiscono sulle decisioni del governo e non sembra che la gestione carceraria sia una priorità per l’attuale ministro”. Servirebbe allora “una revisione dell’intero sistema sanzionatorio: in carcere dovrebbe stare molta meno gente di quella che ci sta oggi”, sottolinea.
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