MILANO (ITALPRESS) – Il termine Hikikomori viene dal giapponese: Hiku vuol dire tirare indietro, ritirarsi, e Komoru rinchiudersi, isolarsi. Con Hikikomori si indica un fenomeno di ritiro sociale volontario e prolungato: persone prevalentemente giovani che si isolano nella loro casa, spesso nella propria stanza, ed evitano relazioni sociali significative, l’uscita di casa, la frequentazione della scuola o del luogo di lavoro. I contatti con il mondo sono limitati e spesso mediati dal web o dai dispositivi digitali: si ritiene che oggi gli adolescenti Hikikomori in Italia siano circa 54mila, ma addirittura 100mila i giovani adulti: considerando tutte le fasce d’età e tutti i livelli di gravità, la stima sale a 200mila persone colpite. “Gli Hikikomori sono soprattutto maschi compresi tra 13 e 17 anni: nella nostra associazione arrivano soprattutto dal nord Italia, ma in realtà sono presenti un po’ in tutta la penisola; abbiamo circa 4mila genitori che afferiscono ai nostri gruppi di aiuto”, ha dichiarato Marco Crepaldi, psicologo e fondatore di Hikikomori Italia, intervistato da Marco Klinger per Medicina Top, format tv dell’agenzia di stampa Italpress.
Nel tracciare l’identikit di un Hikikomori classico, Crepaldi evidenzia come “Parliamo spesso di giovani che abusano delle nuove tecnologie, ma si isolano principalmente per ansie sociali come la difficoltà a integrarsi con i coetanei. Ci sono diverse ipotesi sul perché la prevalenza sia maschile: probabilmente quella più realistica è che gli uomini chiedono meno aiuto e, siccome uno dei problemi degli Hikikomori è non ammettere di avere un problema, probabilmente gli uomini hanno più vergogna ad aprirsi, esprimere emozioni e chiedere aiuto ai genitori”. Diverse le motivazioni che possono spingere i giovani a diventare Hikikomori: “Sicuramente esistono, a livello sia macro sociale che familiare, delle cause relative a questo ritiro prolungato – sottolinea lo psicologo -. La causa madre sembra essere questa sensazione che i giovani di oggi provano in merito alle pressioni sul futuro, sulle aspettative sia dei genitori sia trasmesse tramite i social e il confronto sociale. Il ritiro di un Hikikomori è un modo per sfuggire dagli occhi della società e spesso anche della famiglia, perché poi alcuni di loro rimangono in camera da letto senza mai uscire: ci sono altre concause, come la paura e l’incertezza per il futuro, la percezione della società come negativa e pessimistica, o come i meccanismi di protezione e idealizzazione dei genitori nei confronti dei figli”.
Per Crepaldi “il Covid-19 ha accelerato un po’ tutti i disturbi di origine psicologica, in particolare quelli sociali: anche gli Hikikomori sembrano essere aumentati. In Italia non abbiamo ancora dati oggettivi a livello nazionale, ma in Giappone sappiamo che sono aumentati del 20% proprio per cause legate alla pandemia e al lockdown: sicuramente il Covid ha accelerato l’isolamento di molti e favorito la cronicizzazione di altri, perché ovviamente ha spinto molti a iniziare il ritiro. Se un giovane è ancora nella fase che precede l’abbandono scolastico gli si può ancora parlare e trovare insieme modalità alternative per tornare in aula: una volta arrivato il burnout le difficoltà sono maggiori”. Un rebus l’approccio da adottare in queste circostanze: il suggerimento di Crepaldi è “evitare approcci coercitivi come staccare Internet, minacciare, portare fuori con la forza: non funzionano, perché questi ragazzi hanno paura e se li approcciamo in questo modo scapperanno anche da noi, rischiando di farsi del male”.
“Gli amici – ha aggiunto – spesso possono intervenire per dare un contributo, ma gli Hikikomori spesso scappano anche da loro perché si sentono derisi o non all’altezza: spesso sono anche neurodivergenti, quindi con forme di autismo, e non riescono a trovare nessuno che li capisca; per questo vanno anche online, perché cercano qualcuno che sia simile a loro. Le forzature andrebbero evitate nel momento in cui non c’è un’alleanza tra genitore e figlio: se quest’ultimo sente la presenza di amici, parenti e psicologi come un’imposizione tutto ciò non è utile a risolvere il problema; il primo step è che i giovani ammettano dinanzi alle famiglie di stare male, da lì si può provare a innescare un aiuto”. Lo psicologo si sofferma poi sul lavoro che la sua associazione svolge per trovare soluzioni al fenomeno: “Hikikomori Italia lavora soprattutto con le famiglie: abbiamo un’associazione di genitori molto nutrita in tutto il paese, non è solo presa in carico ma anche attivismo in quanto i nostri genitori vanno a portare le loro testimonianze nelle scuole e nei Comuni; si devono sentire parte in causa del processo di cambiamento. A loro offriamo aiuto, anche attraverso psicologi che collaborano con noi e seguono questi gruppi: il nostro primo obiettivo è aiutare i genitori a capire come rapportarsi con i figli, 8 richieste di aiuto su 10 ci arrivano dalla famiglia in un momento in cui il figlio è in fase di negazione e non accetta alcun tipo di aiuto; se invece a contattarci è il ragazzo o la ragazza che si sono ritirati, offriamo loro psicologi che si sono formati internamente e mettono a disposizione consulenze psicologiche online gratuite sia individuali che di gruppo”.
“È un disagio – ha evidenziato – che tende molto facilmente alla cronicizzazione: l’Hikikomori può durare tutta la vita, in Giappone esistono casi di isolamento che perdurano da 20-30 anni. È uno scenario che si autoalimenta: più si sta isolati, più si fa fatica a uscirne. Ogni caso è diverso dagli altri: ai genitori consiglierei di iniziare un percorso psicologico anche familiare, dal momento che il problema riguarda non il singolo ma la famiglia; i genitori possono partecipare agli incontri ancor prima che il figlio decida di farlo, in modo da capire cosa abbia rotto quest’alleanza”. La riflessione finale è sul ruolo della scuola, che secondo Crepaldi “deve sensibilizzarsi anche su chi ha un carattere più fragile, come chi subisce bullismo, e cominciare a studiare delle forme alternative: oggi molti ragazzi non riescono ad andare a scuola ma vorrebbero continuare a studiare, ci sono istituti che stanno sperimentando degli spazi protetti per i ragazzi. La scuola, a mio modo di vedere, deve essere flessibile e comprensiva: molte ancora approcciano il problema chiedendo al genitore di ritirare il figlio e questo di solito favorisce l’isolamento”.
– foto tratta da video Medicina Top –
(ITALPRESS).









