VENEZIA APPLAUDE JOAQUIN PHOENIX E IL SUO “JOKER”

La follia è una risata in faccia ai potenti: eccolo il “Joker” di Joaquin Phoenix, scritto prodotto e diretto da Todd Phillips, gustatore hollywoodiano che, dopo svariate sbornie e viaggi tra amici (da “Una notte da leoni” a “Parto col folle”), si cimenta nel suo primo comics giocandosi la carta più affascinante delle tante del mazzo DC: la nemesi perfetta di Batman. Il fascino cinematografico della maschera clownesca del Joker è innegabile e ha sempre offerto l’estro a grandi interpretazioni di grandi attori, dal più classico Jack Nicholson del “Batman” di Tim Burton al tormentato Heath Ledger del “Cavaliere oscuro” di Nolan, per non citare il punkeggiante Jared Leto di “Suicide Squad”. Rispetto a questi modelli il “Joker” di Joaquin Phoenix ha la malinconia un po’ vaga e astratta che in genere caratterizza questo grande attore. Smagrito notevolmente per dare corpo all’emaciata disfunzionalità di Arthur Fleck, ovvero Happy come lo chiama la madre, Phoenix dipinge un Jocker proletario, un poveraccio che vive nei quartieri popolari di una Gotham City anni ’70: seguito dai servizi sociali per trascorsi psichiatrici, Arthur Fleck tira a campare facendo il clown da strada, mentre sogna di fare lo stand up comedian e bada alla madre malata.
La donna, poverina, vive nel mito di Thomas Wayne, il magnate di Gotham, per il quale ha lavorato e dal quale spera ancora di ottenere un magnanimo aiuto per Arthur. Gancio per porre in relazione il nascente Joker con l’ancor piccolo Bruce Wayne, lungo la linea d’ombra di un destino che li vedrà opposti nel segno di Batman.
Il film è costruito tutto addosso al malessere umano e psicologico di questo personaggio, perseguitato dal destino, condannato al sorriso triste del clown e alla felicità forzata impostagli dal nomignolo attribuitogli dalla madre. Todd Phillips fa di lui un outsider che sgorga dallo scenario di una Gotham anni ’70 mutuata dalle strade scorsesiane di “Taxi Driver”, traslando anche in questo il modello dalla graphic novel di Alan Moore e Brian Bolland dedicata al Joker (The Killing Jake), cui il film pare ispirarsi concretamente. La modulazione è classica, perché funziona letteralmente sull’iconografia del villain forgiato dall’ingiustizia della vita e dai soprusi subiti, ma ciò che colpisce del film è la volontà di tarare nascita e ascesa del Joker sul versante di una rivolta sociale che guarda alla ribellione dei miserabili contro i potenti e all’attacco al sistema. Ecco dunque che l’uccisione di tre bulletti da metropolitana, mezzemaniche in libera uscita dall’impero di Thomas Wayne, che aggrediscono Arthur e si ritrovano freddati dalla sua pistola, diventa l’inizio di disordini sociali condotti all’insegna della maschera da clown indossata da Arthur al momento dell’uccisione.
E questa strada è percorsa sino in fondo, spingendo anche sul pedale dello spettacolo che ridicolizza i drammi sociali, qui incarnato da un ottimo Robert De Niro (altra presenza scorsesiana del film) che interpreta il condutture televisivo Murray Flanklin, nel cui spettacolo avrà luogo lo showdown fondativo del Joker. Il film ha un impianto drammaturgicamente pieno, anche se sostanzialmente prevedibile, sia per impostazione visiva che per definizione caratteriale dei personaggi. La seconda parte risulta nettamente più convincente e va detto che intriga non poco l’impostazione politica data all’operazione. Così come appare interessante, soprattutto per eventuali sviluppi futuri, l’accenno a un legame tra il Joker e Bruce Batman Wayne, di cui è meglio non dire di più ora per non rivelare troppo.

 

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