Trent’anni senza Falcone, ma con la sua eredità

FALCONE GIOVANNI (PALERMO - 1992-05-28, Naccari / GIACOMINOFOTO) p.s. la foto e' utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e' stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate (FOTO REPERTORIO - 2022-05-23, Naccari / GIACOMINOFOTO) p.s. la foto e' utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e' stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate

ROMA (ITALPRESS) – Trent’anni senza Falcone. Senza di lui come uomo, con la somma delle sue responsabilità, delle sue battaglie, delle sue amarezze, dei suoi sogni. Senza quel sorriso disarmante, porta d’ingresso, dice chi l’ha conosciuto bene, di quell’ironia così sorprendente in chi aveva, per estrema consapevolezza, un rapporto diciamo costante con la morte. Eppure trent’anni anche con Falcone, con la sua eredità morale, intellettuale, giuridica. Mai come dopo l’attentato di Capaci, e subito dopo a luglio con l’attentato di Via D’Amelio in cui persero la vita Borsellino e cinque agenti della scorta, la lotta dello Stato alla mafia è stata dura, coerente, quasi vicina a un successo finale che poteva essere colto e non fu colto. Una quasi-vittoria che è stata possibile solo grazie al suo patrimonio investigativo, alle sue intuizioni, a quello che lui aveva capito e ci aveva fatto capire della composizione e della fenomenologia di Cosa nostra. Grazie anche alle leggi a alle strutture anticrimine messe a punto nella breve stagione come Direttore degli affari penali, incarico che gli diede l’allora ministro della Giustizia Martelli che gli diede anche, cosa fondamentale, autonomia e copertura politica.

Le ricorrenze, come pura liturgia, servono a poco, se non a riempire le librerie di saggi talvolta dimenticabili. Ma se l’esercizio della memoria si accompagna a una rivisitazione seria del contesto storico e a un’analisi giornalistica che può mettere dei focus nuovi sulla figura di Falcone senza paraventi ideologici, allora si fa un doppio lavoro utile. La lezione di legalità e di democrazia che viene da quell’esperienza drammatica e insieme straordinaria può essere trasferita nella sua potenza e nella sua bellezza alle giovani generazioni. Nello stesso tempo possiamo capire di più le ragioni di quello che accade in quel sanguinario pomeriggio di maggio sull’autostrada che da Punta Raisi porta a Palermo. Ci sono passato, dopo tanto tempo, in un’afosa giornata di ottobre. Ho chiesto al tassista di accostare e di fermarsi. Sono sceso e mi sono concesso quella che Proust chiamava Epifania, le cose che si rivelano. Ho rivisto in alto Brusca che preme il meccanismo della morte, ho rivisto il cratere del manto stradale. Ero un giovane anchorman di un giovane telegiornale quando accadde, emozionato e inesperto.

Avevamo cominciato con la guerra in Iraq e ora ci confrontavamo con la guerra che la mafia faceva allo Stato e ai suoi uomini migliori. Falcone quel giorno, quando lasciò la vita con l’amata Francesca e tre uomini della sua scorta, Schifani, Dicillo e Montinaro, non è vero che fosse un uomo solo, non è vero che la stagione romana fosse solo una fuga da una Palermo che non lo aveva capito e amato come avrebbe dovuto. E’ un luogo comune che va superato. Proprio in quella struttura politica e amministrativa aveva messo a punto armi affilate, dalla DIA alla superprocura, dall’inasprimento del carcere per i mafiosi alla strategia premiale per i collaboratori di giustizia. Non ci sono solo il successo del maxiprocesso e la mancanza delle coperture nelle istituzioni corrotte a spingere Cosa nostra verso quella strategia dello sterminio che le sarà poi fatale. Quell’ultimo Falcone, che pare avesse ritrovato anche una serenità di vita a Roma con Francesca, faceva paura quanto il magistrato inflessibile di Palermo. Ed è lì che le sentinelle, le spie e i sicari lo aspettavano il 23 maggio con il loro carico di distruzione.

Claudio Brachino

– foto agenziafotogramma.it –

(ITALPRESS).

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