PREPARIAMOCI A TORNARE, SENZA PAURA DEL VIRUS

Giocare o no? Porte chiuse o porte aperte? Godersi i gol di Dybala o no? Soffrire per la squadra del cuore che rischia la retrocessione o augurarsi uno stop ufficiale che magari la salva? E lo scudetto chi lo vince? La Juve ch’e’ gia’ prima splendida splendente? E chi ci dara’ una risposta decisa, anche se sgradita? Forse il Ministro Tentenna che ha una verita’ al giorno? Ho anticipato mille chiacchiere precisando che non esistono decisioni “sportive” – Lega, Federazione, CONI – ma solo governative, l’interesse pubblico non puo’ dipendere da Dal Pino, Gravina o Malago’; e neppure da un ministro senza portafoglio ne’ competenza come tanti opinionisti: solo dal governo, e da un decreto legge. Punto e basta. Inaudito? Gia’. Anche ingiusto, per gli interessati. Me compreso. Ma se a questo siamo arrivati forse e’ tempo che si capisca la gravita’ del momento. Ai miei figli, ai colleghi e agli amici piu’ giovani ho detto: questa peste e’ peggio della guerra.
Estate 1944. Fuga dal paese natale, sfollati in campagna, mitragliamenti, bombe. Poi un altro paese, un’altra casa. E i fratelli piu’ grandi si chiedono ancora se continuera’ a vincere il Torino di Vittorio Pozzo, se e quando tornera’ a comandare la Juve come ai tempi di Carcano…
Nella piazza principale di Poggio Berni, un paese romagnolo sulla Linea Gotica, giocavamo a pallone a un metro dai panzer tedeschi e quando un pallone scappava un soldato ce lo restituiva con un calcio. Ridendo. Forse pensando che lo stesso gesto l’avrebbe fatto a casa, con un fratellino di cinque anni. Come me. In casa non s’ascoltava Radio Londra ma le cronache sportive non erano proibite, e qualche campionato – a Nord, a Sud, anche vicino a noi – si giocava. Poi qualche giorno al buio, quando le battaglie aeree o i confronti ravvicinati a cannonate ci costringevano a scendere nel rifugio, una grotta spaziosa dove ci portavamo la palla strappando un sorriso agli adulti impauriti. La palla: non ho conosciuto un altro strumento cosi’ rallegrante, in qualsiasi situazione; dunque conosco bene la paura, e me la vedo intorno, perche’ non potersi toccare, temere anche un sospiro, non ti dico uno starnuto, un colpo di tosse, vuol dire esserne prigionieri, niente di meno; e il virus fa piu’ paura di una guerra annunciata che ha i suoi segni, seppur tecnologica, mentre cosi’ tremi, t’inquieti, solo per segnali incerti, avvertimenti, minacce. Cosa sara’ domani. Da giorni e giorni ormai ognuno dice la sua, le opinioni si sprecano, tutti indovinano tutto. O niente.
Cosi’ siamo arrivati al punto: giocare o smettere? Leggetevi il decreto apparso sui vostri tablet e cell come se fosse un pessimo scherzo di facebook, scritto proprio cosi’, come uno scherzo macabro, roba da Iene. E invece e’ tutto vero. Il campionato, se e’ vero che ha buon diritto di esistere, puo’ chiudere come stanno chiudendo gli alberghi, i ristoranti, le scuole, le chiese. Gia’, le chiese. Quelle no, quelle le terrei sempre aperte. Fini’ la guerra. Lasciammo i rifugi, il paese ospitale, tornammo verso Rimini. Arco d’Augusto, Anfiteatro Romano. Il Tempio Malatestiano semidistrutto. Ci aspettava la chiesa di Santa Rita, la Santa degli Impossibili. Il sorriso torno’ col piatto pieno, non con il calcio. Anzi. Stavamo riprendendoci il gioco, e mori’ il Torino… Da’i. Prepariamoci a tornare. Senza paura del virus.

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