30 anni fa moriva Tognazzi, “mostro” col “vizietto” del cinema

Dici Ugo Tognazzi e pensi allo sgangherato reietto dagli occhi storti de “I mostri”; dici Tognazzi e ti viene in mente la supercazzola denaturata rifilata a chicchessia dal conte decaduto Raffaele Mascetti di “Amici miei”; dici Tognazzi e ti viene in mento Renato, l’omosessuale dell’eccentrica coppia de “Il vizietto”, ruolo che gli darà il successo internazionale che meritava. Ugo Tognazzi era una maschera straordinaria, mostro sì ma di bravura, nato nell’avanspettacolo ma capace a teatro di recitare Pirandello in francese. Vita consumata soprattutto tra tv (restano negli annali le gag con Raimondo Vianello) e il cinema. Tognazzi, il giovane ragioniere cremonese del salumificio Negroni, da grande ha conquistato l’Italia, lui che da attore ha rappresentato gli italiani sotto varie fisionomie: a volte donnaiolo impenitente, altre volte bugiardo incallito, altre ancora imbroglione da quattro soldi. E’ passato dall’interpretare la parte dell’operaio metalmeccanico in “Romanzo popolare”, a quello dell’industriale settentrionale ne “La tragedia di un uomo ridicolo” di Bertolucci con la stessa naturalezza di sempre; credibile quanto perfettamente convincente. Tognazzi, nato a Cremona nel ’22, moriva nel sonno trent’anni fa. Tra i “mattatori” della commedia italiana, la morte lo strappò all’arte in una notte di autunno: era il 27 ottobre del 1990. Già da qualche anno la vita e con essa l’entusiasmo dell’attore sembravano sfilarsi lentamente; piombato nella depressione aveva perso la voglia dell’interpretazione, il vigore dell’artista, l’energia del genio.
Si disse che avvertiva il tradimento del cinema, quasi come se fosse stato dimenticato e condannato all’oblio. Comprensibile paura di chi in una prolifica carriera ha interpretato centinaia di ruoli in centinaia di film e mal sopportava l’incedere del tempo, l’approssimarsi della morte. Ugo Tognazzi era un attore capace di interpretare ruoli anche “scomodi”, spessissimo moderni, di sovente controcorrente. Non temeva il giudizio del botteghino e per questo riusciva ad osare. Ha osato in quel sodalizio fortunato che lo ha legato a Marco Ferreri, che ha consentito di realizzare quel magnifico film che era “La grande abbuffata”. Ha osato anche in quella brevissima carriera da regista (5 film all’attivo), dirigendo pellicole che difficilmente qualcuno gli avrebbe offerto, come “Il fischio al naso”, un gustoso gioiellino del nonsense. E poi le commedie dal tono leggero, con un canovaccio intriso di equivoci, corna e bugie, improbabili scuse e una vita da consumare sotto le lenzuola. Poi ci sono le pellicole più impegnate, con Tognazzi nella parte dell’eroe borghese. Sembra che ci sia un prima e un dopo nella sua fruttuosa filmografia; la faccia comica degli inizi e poi quella malinconica degli ultimi anni della carriera. Nel suo sguardo la visione sorniona del mondo, di una vita che con i suoi personaggi è riuscito a tratteggiare mai banalmente. Una vita vissuta per la settima arte, concretizzatasi in quella mole di pellicole alcune delle quali divenute pietre miliari.
Snocciolare tutti i titoli, anche i principali della sua carriera cinematografica è cosa assai ardua. Ogni film è differente dall’altro, anche nei sequel di produzioni fortunatissime come per “Il vizietto” o “Amici miei” pare cambiare atteggiamento, dare comunque un tocco di originalità. In ognuno ha lasciato una parte di se, frammento del grande attore, del grande uomo di spettacolo che amava il cinema quanto le donne, la famiglia e quella che è stata la sua più grande passione: la cucina. Mattatore davanti alla macchina da presa, allo stesso modo, con lo stesso impeto e la stessa serietà, lo era dietro ai fornelli. Ma questa è tutta un’altra storia.
(ITALPRESS).

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