VITTORIA IN POLONIA NON È UN MIRACOLO

Le vittorie sono raramente miracoli e non lo è quello della giovane Italia di Mancini che ha sconfitto la Polonia di Boniek dandole anche una lezione di calcio, nonostante ci opponesse un pugno di giocatori che abbiamo valorizzato nel nostro campionato al punto di temerne la forza distruttiva. Non sarebbe stata una novità: da tempo diamo ai "nostri" stranieri un'istruzione tattica che ci viene rivolta contro quando li affrontiamo nelle loro nazionali e talvolta corriamo ai ripari…nazionalizzandoli: come è successo a suo tempo con l'argentino Camoranesi, facendolo addirittura diventare "mondiale" azzurro; così oggi con Jorginho, eccellente centrocampista italo-brasiliano di cultura italica; forse domani con Allan, allevato a Udine da Francesco Guidolin ma – si dice – anche da un nonno italiano a Rio de Janeiro.

Vaghezze a parte e pessimismo della ragione (siamo comunque i cacciati dal Mondiale russo) è servita a curarci, a farci vittoriosi, la paura di perdere, di retrocedere in Europa (il Continente è per noi un incubo diffuso); ma – dico io – anche e soprattutto il desiderio di vincere, l'unica cosa che conta. Vincere giocando – dopo un anno senza vittorie ufficiali (ultima vittima degli azzurri di Ventura l'Albania) – la partita più bella della gestione Mancini. Tutto questo mentre Sacchi stava spiegando a Pep Guardiola che non esiste vittoria vera senza bel gioco. Dove nasca, l'impulso estetico, è materia di eterno dibattito. Nel caso di questa effervescente, dinamica e metronomica Italia ritrovata, a mio avviso si deve riconoscere che non tutti i convocati di Mancini – alcuni accolti addirittura con dubbi e sufficienza, come Piccini, Biraghi, Barella e Lasagna – ispiravano certezze; ma il calcio, che spesso è un mistero, si raccomanda come sport difficilmente praticabile con la sola fantasia miracolistica o l'estetismo fine a se stesso: ce ne rendiamo conto oggi che proprio dagli Anonimi Azzurri è nata una prestazione mista di qualità e orgoglio. Confermando che la prima cosa che si richiede al Commissario Tecnico è di essere un valido selezionatore, poi un allenatore con le personali idee tecniche e tattiche. Oggi parliamo di sorpresa (o di miracolo, come dicevo) ma la qualità dell'esibizione di gruppo conferma invece l'esito positivo di una ricerca e di un lavoro di campo prodotto da un tecnico la cui affidabilità è superiore all'immagine disincantata che offre, spesso per questo facendosi sottovalutare. Chi ricorda Mancini giocatore ne ha apprezzato le qualità di attaccante fantasioso, ribelle, guidato da uno spirito felicemente anarchico, mentre siamo abituati a CT provenienti quasi tutti da ruoli "quadrati" di difensori o centrocampisti ritenuti, a torto o a ragione, "pensatori" e organizzatori di gioco. Dai Sessanta ad oggi gli unici attaccanti sulla panchina azzurra sono stati Fulvio Bernardini ("Ma ho fatto anche il portiere " – mi diceva) e Roberto Donadoni, entrambi ottimi "stilisti" con capacità magistrali.

Alla vigilia di Polonia-Italia molti avevano già accettato la resa di Mancini anticipata in conferenza stampa: "Se perdiamo non conta, noi dobbiamo lavorare per gli Europei". E allora m'era tornato in mente Sarri che genialmente aveva buttato Coppa Italia, Champions e Europa League "perché il Napoli deve pensare allo scudetto". Scudetto tristemente perso in un albergo fiorentino. Mancini – proviamo a capirlo oggi – voleva probabilmente metter le mani avanti e soprattutto difendere i "ragazzi" con i quali avrebbe comunque dovuto cercare l'altra promozione continentale, gli Europei 2020. Convinto personalmente che questa Uefa Nations League serva soprattutto ad allenarsi per l'altro e più importante torneo, era comunque disdicevole quell'esito disastroso – caduta nella B d'Europa – che tuttavia non è stato del tutto sventato (il 17 novembre si giocherà Italia-Portogallo, immagino con Cristiano Ronaldo in campo, e il 20 Portogallo-Polonia). Dopo l'esclusione dai Mondiali, un altro flop avrebbe garantito gare di prefiche e esibizioni di Cassandre. Da un successo colto con tanta fatica – non riesco a capire chi dice "con fortuna" se non riferendosi al gol di Biraghi realizzato nei minuti supplementari, al 92', come spesso accade in campionato – traggo due note importanti: la prima riguarda Mancini, travolto dall'entusiasmo dei "ragazzi" (Bernardeschi lo ha abbracciato freneticamente come fosse un compagno, non il suo tecnico) che ci eravamo persi da tempo, ancor prima delle lacrime milanesi di Buffon; la seconda riguarda il Sistema, vale a dire l'ingresso al vertice della Federazione (pare ormai scontato) di Gabriele Gravina come presidente. Il successo azzurro è beneaugurante ma soprattutto libera l'apprezzato dirigente (dico io, conoscendolo da lungo tempo) da eventuali alibi: la Nazionale sta trovando da sola la sua strada, è ora di porre mano alle impellenti riforme dei campionati, degli eccessi di stranieri e della ridicolizzata giustizia sportiva. Immagino che Cristiano Biraghi da Cernusco sul Naviglio, e il suggeritore Kevin Lasagna da San Benedetto Po, figli dell'italica provincia, non abbiano ancora realizzato la straordinaria portata del loro gol che ha portato una ventata d'allegria al Quirinale e offerto un sorriso al Presidente Mattarella. Che ne aveva bisogno.

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