LAVORO, LA CONTRORIFORMA DEL CONTRATTO A TERMINE

Ecco che arriva puntuale la promessa di Luigi Di Maio: la cancellazione del jobs act. In tal modo, le lancette dell’orologio tornano all’indietro di 17 anni, con la controriforma del contratto a termine.
La motivazione fatta conoscere, è stata quella di voler sconfiggere la precarietà. Con un decreto, e senza un approfondimento, si è proceduto, sicuramente con l’obiettivo di impressionare i cittadini, nel segnalare che si fa sul serio sul lavoro. Così si sono drizzate gli orecchi di tutti coloro che hanno osteggiato per decenni, in ogni modo, le riforme del lavoro, che erano arrivate in Italia già in ritardo, rispetto ai mercati del lavoro dei paesi nostri concorrenti. È stata sempre forte in Italia, la componente politica e sociale che ha tradizionalmente, con la propria iniziativa ideologica, ostacolato il cambiamento, con il proposito di mantenere tutta la impalcatura giuridico-contrattuale sempre uguale a se stessa: a dispetto della mondializzazione del mercato e dello sviluppo delle tecnologie digitali. Si è versato anche sangue di persone come Biagi, uccise solo perché con l’opera di ricerca, ha proposto con molti altri, il superamento del dannoso e farraginoso sistema del mercato del lavoro all’inizio degli anni 2000. Ora con un colpo di spugna tutto torna come prima.

Non credo ci si renda conto del segnale negativissimo che si dà ai mercati; tutto ciò mentre l’economia italiana è diventata il fanalino di coda per ripresa tra i paesi industrializzati.
Sfugge l’idea semplice e incontestata, che il lavoro non si crea con decreti, ma con investimenti che si ottengono in paesi accoglienti e vantaggiosi. La precarietà che si intende combattere con l’idea della “restaurazione”, non potrà che avere esiti opposti, a causa della conseguente contrazione delle attività produttive provocate dal “riflusso”. La rigidità del mercato, è certo, scoraggerà gli investimenti di italiani ed imprenditori esteri; si meno investimenti, e meno assunzioni.
Ai tanti gap già presenti, se ne aggiungeranno altri, che tutti davano per scontato e già risolti da tempo. Poi che dire della idea, che basta rimettere le ‘causali’ al contratto a termine, e ridurre il numero dei rinnovi per eliminare la precarietà. L’unica conseguenza che si avrà, è il ricorso massiccio al lavoro para subordinato: ingrosseranno le fila delle partite iva e del lavoro interinale, come è accaduto in passato quando il contratto a termine era molto rigido.

Ma i lavoratori sanno benissimo che l’alternativa del lavoro somministrato e di partite Iva rispetto al contratto a tempo determinato, è molto svantaggioso. Infatti il tempo determinato garantisce gli stessi diritti del rapporto di lavoro a tempo indeterminato: il salario, le contribuzioni sociali, i diritti sindacali, sono identici. È molto chiaro che queste considerazioni di merito non sono state volutamente ponderate, proprio perché si è voluto mandare un messaggio forte agli ambienti ideologici di sinistra; anche a scapito della economia e delle persone. Ora non resta che sperare in un ravvedimento; il decreto dovrà pur passare in Parlamento e chissà che non incontri forze sufficienti utili ad un ripensamento.

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